Corte Mincio

Corte Mincio

Corte Mincio è stata, soprattutto, luogo di lavoro: magazzino e laboratorio. Un ampio spazio in cui stoccare e sottoporre alle prime lavorazioni la canna palustre (i canèi) e la carice (careșa). E’ il luogo che più di ogni altro testimonia come i Rivaltesi impararono a governare la palude, che a Rivalta sul Mincio, viene chiamata Valle (laVal). La Valle era “coltivata” e si raccoglievano i suoi frutti. L’impaludamento dei campi, a seguito degli interventi idraulici del Pitentino, per tutti era sembrata una sciagura, ma si trasformò in ricchezza. I Rivaltesi impararono a conoscere la Valle così a fondo da trasformarla da luogo malsano, in bacino percorribile con speciali barche in legno spinte a remi (rem e puntal), segnando e aprendo canali (li fösi) e tenendoli puliti. Questo era importante perché non si impigliassero le reti per la pesca e fossero sempre percorribili per raggiungere i luoghi di lavoro. I Rivaltesi impararono ad aerare l’acqua bassa aprendola al vento e a creare correnti. Impararono a far crescere rigogliosa la vegetazione palustre allagando periodicamente il territorio e a renderlo salubre, utilizzando sapientemente il fuoco a fine raccolto: il debbio. Attività che consentirono ai Rivaltesi di vivere dignitosamente. Se l’agricoltura tradizionale poteva essere praticata solo con la bella stagione, Il Mincio, invece, dava sempre i suoi frutti: d’inverno la canna palustre, a primavera il pesce, d’estate la carice, in autunno “al trigul”, legna e ancora pesce. Il lavoro era distribuito in modo abbastanza omogeneo tra uomini e donne, occupando gran parte della popolazione attiva. Verso la fine degli anni ’50 l’attività di raccolta e lavorazione dei prodotti della Valle, ruotava, essenzialmente, attorno a quattro aziende: quella della famiglia Benasi fu Fiore fondata da Francesco Benasi nel 1860, quella dei Todeschi fondata da Rodolfo Todeschi nel 1894 e quelle delle famiglie Scalogna e Grassi. Queste famiglie insieme ai Belenghi, Tomaselli, Bernardi, Mozzanega, Bresciani, Lonardi e Tognoli diedero vita ad una fiorente attività, talmente importante, che arrivò ad impiegare anche diverse maestranze dei paesi vicini. In quel periodo si arrivò a lavorare una quantità di prodotto greggio pari a 15/16 mila quintali di canna palustre e 5 mila quintali circa di carice pregiato. Rivalta sul Mincio arrivò ad essere considerata la capitale italiana della canna e della carice. Sono attività che, pur sottoponendo il territorio a sfruttamento intensivo, hanno conservato l’ecosistema della Valle per quasi ottocento anni. I lavori in Valle l’hanno lasciata immutata evitando il naturale interrimento solo ed esclusivamente grazie alle corrette pratiche di gestione rispettose dell’ambiente. Più recentemente, dall’inizio degli anni ’90, con l’avvento di nuovi materiali e delle moderne tecnologie, queste attività sono progressivamente sparite e con esse è diminuito l’interesse generale verso questi ambienti unici e rari ed è iniziata la fase di progressivo degrado di questi habitat naturali. Per questo è doveroso mantenerne la memoria, perché rappresentano tradizioni rispettose della natura, dalle quali dovremmo trarre esempio, in futuro, per la conservazione delle Valli e del Mincio.

I Rivaltesi visti da Adriano Tomaselli “Tom”

Gent da Val

Par ani e ani, istà e invèran, sgàlmari, mesurèl e fiaschin dal vin, la matina bunura șo in dla val, cun la batèla.
I part ch l’è scür e fred, che pena pena ’s agh ved: l’è gent gaiarda; i è lauradur vià a fadighi, calur, tavan, sansali e südur, a fümana, brina, nef…
Töt al dé a tach a chi pinòt: taià, cargà, dasténdar infin a nòt.
Töt al dé a tach a chi masun par arèli, arlin e burlun!
Insal Mens dla matina ala sera: laurà e laurà….a par gnan vera!
I sa mésia, i s’ dà da fa, sensa cincèl, sensa tant parlà!
Sulament dòp na smana ‘d fadighi e d’acident, at i vedi a fa “sàbat”
toti cuntent.
An piculin, insiem a l’ustaria e a mèsdé sa sdèlfa la cumpagnia.
E i arlunsi…cu li man pieni ’d seduli e s-ciapin, töt al dé li sa mésia
indi magașin cun arlin, arèli, störi, burlun e filferin.
Li filanderi ch li pasa i dé in mèșa l’udur da falòpa, indla fûmana dal vapur, cun li man sénpar in mòia indl’àqua bruenta par laurà la seda
dli galeti in màșara.
Tota gent sensa tanti “oimè”, seria, sensa preteși.

 

TOM ANNO 1993

 

Gente di Palude

Per anni e anni, estate e inverno, legnacci, falce e fiasco del vino, la mattina presto giù
nella palude, con la barca.
Partono che è ancora buio e freddo, che appena ci si vede: è gente robusta; sono
lavoratori abituati a fatiche, caldo, tafani, zanzare e sudore, a nebbia, brina, neve….
Tutto il giorno a lavorare mazzi di “careșa”: tagliare, caricare, distendere sin quasi a
notte. Tutto il giorno a lavorare quei fasci di canne per graticcie e stuoie! Sul Mincio
dalla mattina alla sera: lavorare e lavorare….. non sembra vero!
Si affrettano, si danno da fare, senza rumore, senza tanto parlare! E, dopo una settimana
di fatiche e di accidenti, li vedi riscuotere il salario (il sabato) tutti contenti.
Un bicchiere di vino, all’osteria e a mezzogiorno si scioglie la compagnia.
E le donne delle “arelle”… con le mani rovinate da tagli e screpolature, tutto il giorno
si affrettano nei laboratori con stuoini, graticci, stuoie e filo zincato.
Le “filandaie” che passano i giorni immerse nell’odore dei bozzoli guasti, nelle nebbia
del vapore, con le mani sempre in acqua bollente per ricavare la seta dei bozzoli a
macero.
Tutta gente modesta, senza prestese, seria e dignitosa.

Testimonianza di Bruno Benasi nato a Rivalta sul Mincio il 25 marzo 1943. Ottobre 2022

Incontriamo Bruno per chiedergli di raccontarci della sua esperienza lavorativa in Valle. Bruno è discendente di una delle quattro famiglie che hanno fatto la storia della lavorazione delle erbe palustri a Rivalta sul Mincio, i Benasi. Quale persona schiva e riservata si avvicina alla nostra richiesta con un po’ di titubanza ma poi si lascia andare ai ricordi ed è un grandissimo piacere ascoltarlo.
“… mio nonno Fiore inizia l’attività nel 1860 come imprenditore agricolo. Occupandosi, allo stesso tempo, della coltivazione della terra e della Valle riusciva a garantire il lavoro per tutto il periodo dell’anno ai propri dipendenti, senza dover ricorrere a licenziamenti o a quella che oggi chiamiamo “cassa integrazione”. Le 120 biolche di terra situate in prossimità dell’abitato di Rivalta erano adibite alla coltivazione delle colture tradizionali. In Valle, invece, si raccoglieva la canna per la fabbricazione della “arelle” che, intrecciate con la “pavera” (tifa), venivano, inizialmente, utilizzate per l’allevamento dei bachi da seta in ambiente domestico e successivamente per la conservazione della frutta, in particolare dell’uva. Nell’alto mantovano le “arelle” servivano per l’essicazione dell’uva utilizzata per la produzione dei vini passiti e nel veronese, invece, per la produzione dell’Amarone. Attorno al 1915, dopo la morte di mio nonno Fiore, subentrarono nell’attività mio zio Italo e mio padre Plinio fondando l’azienda agricola F.lli Benasi fu Fiore. Il primo continuò ad occuparsi della coltivazione della terra, mentre mio padre della coltivazione della Valle, compresa la raccolta e lavorazione dei suoi prodotti. L’attività relativa alla lavorazione della canna palustre si espande rapidamente anche perché si imparano con tanta umiltà le tecniche di coltivazione della Valle. Le inondazioni forzate del canneto e la bruciatura (il debbio) di ciò che restava sul terreno dopo la raccolta della canna (foglie e resti delle erbe palustri non asportabili) garantivano la crescita di una palude sana e fertile. Contribuivano, inoltre, ad evitarne l’autobonifica e rappresentavano un efficace sistema di depurazione della acque del Mincio, grazie alle proprietà filtranti delle lunghissime radici della canna palustre. I cariceti, invece, venivano coltivati creando appositi appezzamenti tra il canneto. La canna in natura è predominante sulla carice, perché raggiungendo altezze ragguardevoli, toglie la luce necessaria alla sua crescita. Inoltre, la carice ha bisogno di crescere nell’acqua per svilupparsi, proprio come il riso. Quindi, per far spazio al cariceto si doveva impedire alla canna di crescere recidendola definitamente alla base. Differenti erano anche i sistemi di raccolta. La canna dopo essere stata tagliata, veniva raccolta in grandi mazzi, caricata sulle barche e portata a riva dove veniva stoccata su apposite palizzate (cavalli di Frisia) in attesa delle successive lavorazioni. La carice, invece, dopo la raccolta veniva stesa nei campi ad essiccare dove rimaneva anche la notte per farle prendere la rugiada da entrambe le parti e farla sbiancare. Poi veniva raccolta in fasci da 5/6 kg e fatta stagionare nei magazzini. Successivamente, con la “pettinatura” si eliminava la caresa meno forte e sana per confezionarla in fasci da 5 kg pronti per la vendita. Per poterla lavorare bastava bagnarla con l’acqua e sembrava di manipolare della seta. Nel 1920 abbiamo iniziato ad esportare i nostri manufatti in diversi paesi europei. Negli anni successivi la canna venne utilizzata in edilizia per le controsoffittature o per la fabbricazione di particolari pannelli utilizzati per coibentare le pareti o i soffitti. Con la “Targes” della famiglia Grassi avevamo pattuito di fornire le canne per la realizzazione dei pannelli utilizzati per la costruzione di edifici in aereoporti, ospedali e palazzi sia in Italia che in Europa. La “Targes” si occupava della loro realizzazione e posa, quindi si dividevano gli utili “sulla parola”, con correttezza e rispetto dei reciproci accordi, cosa al giorno d’oggi impensabile.

Con la canna, inoltre, si fabbricavano le arelle per la copertura dei fiori nelle aziende florovivaistiche della Liguria e della Toscana, per l’essicazione dei laterizi, per coperture varie comprese quelle delle strutture utilizzate a protezione dei siti archeologici, per i soffitti dei capannoni degli allevamenti avicoli e suinicoli e per gli avvolgibili da finestra. Le arelle fabbricate con il filo zincato potevano durare anche 18 o 20 anni. Grandi quantitativi di materiale greggio venivano esportati in Germania per essere utilizzati in edilizia. Ricordo che, attraverso la ferrovia, esportavamo verso quel paese anche 120/130 vagoni di prodotto all’anno. Siccome l’inventiva non mancava, trasportavamo la merce alla stazione di Castellucchio utilizzando i gipponi americani “Morris” che, opportunamente modificati, riuscivano a trainare grossi rimorchi. I trattori agricoli all’epoca non potevano viaggiare in strada. La caresa invece veniva esportata in Francia, Belgio e Svizzera per l’impagliatura delle seggiole. In Italia, in alcuni casi, è stata utilizzata anche come copertura di bar e ristoranti. La raccolta della canna iniziava il 1 novembre e terminava il 25 marzo. Dal 26 marzo al 15 giugno si procedeva alla sua pulitura e selezione e dal 16 giugno al 15 agosto, invece, si raccoglieva la caresa. L’orario di lavoro invernale prevedeva di iniziare alle 8 fino alle 13 e dalle 14 alle 18. In estate invece si iniziava a lavorare alle 7 fino alle 11 e dalle 15 alle 19. La mattina si terminava alle 11 perché era usanza che datore di lavoro e maestranze si facessero un bel bagno ristoratore nel Mincio prima di tornare a casa per il pranzo e il riposino pomeridiano. Fondomincio non era solo luogo di lavoro ma anche importante luogo di socializzazione. Era possibile trovare Cleante Grazioli, figlio di Olga e Tarabin, che con il suo chioschetto vendeva gelati oggi introvabili. Pensate che Cleante insieme all’altro gelataio rivaltese “al Ligio” avevano inventato “il missino”: un gelato simile al più recente “Mottarello”. Mettevano su un cono una “palla” di gelato alla panna, lo immergevano nel cioccolato fondente e il risultato era qualcosa di meraviglioso. Si lavorava fino al sabato, poi si tornava a casa non prima di aver ricevuto lo paga settimanale. Ricordo in particolare che le arellaie venivano pagate a cottimo concordando una produzione minima settimanale. Quindi, potevano gestire il lavoro come desideravano anche in base all’abilità personale. Alla fine degli anni 60 avevamo 105 dipendenti tra uomini e donne. Ricordo due momenti di grandi difficoltà. Il primo è stata l’eccezionale nevicata del 1954 dove perdemmo totalmente il raccolto; non rimase in piedi nemmeno una canna. L’altro lo vivemmo nel novembre del 1951, l’anno della grande alluvione del Po che coinvolse anche il Mincio. Nessun problema per la Valle in questo caso, ma tantissimi disagi per le persone. A Rivalta l’acqua arrivò a metà dell’attuale via Porto e Mantova era completamente allagata. Ricordo che vennero i carabinieri a chiederci le imbarcazioni per portare i Mantovani dal centro città allagato verso le zone periferiche per metterli in salvo. In quegli anni anche la caccia e la pesca rappresentavano una risorsa economica importante. I giochi di caccia si vendevano all’asta a prezzi importanti per quel periodo oppure si affittavano ai cacciatori che arrivavano da buona parte del nord Italia. Questi, la sera prima, venivano accolti dai barcaioli rivaltesi con un’abbondante cena nelle famose osterie del paese e dopo aver alloggiato nelle locande, venivano accompagnati in Valle, la mattina successiva, per le battute di caccia. Agli inizi degli anni ‘80 iniziano a comparire i primi segnali di difficoltà. Diventa sempre più complicato trovare manodopera che è attratta da attività meno faticose, cambiano i consumi e si inizia a subire la concorrenza dei manufatti asiatici. Ricordo che ho cessato l’attività nell’anno 2000, anno in cui ho inviato l’ultimo vagone ferroviario in Francia carico di erba palustre.

Video storico a disposizione del Circolo Fotografico di Rivalta sul Mincio, gentilmente concesso dalla famiglia Mozzanega

Opuscolo pubblicitario 3° Mostra Mercato della caccia della pesca e degli articoli sportivi

Pubblicazione dell’Associazione Pro Loco “Amici di Rivalta” in occasione della Mostra Mercato del 26 27 28 e 29 settembre 1969 a Rivalta sul Mincio.

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