I lavatoi di Fondomincio

I lavatoi di Fondomincio

Fino agli anni ‘60 del secolo scorso, lavare i panni richiedeva molta fatica e necessitava del lavoro di diversi giorni. Quando la lavatrice non era ancora presente nelle nostre case, recarsi al fiume dopo la “bügada” (bucato periodico di lenzuola e altri capi nel grande paiolo) era un vero e proprio rito. La fase di preparazione iniziava a casa con la raccolta dell’acqua dalle pompe (li tronbi) che, successivamente, veniva fatta bollire con della cenere. I panni sporchi, nel frattempo, venivano messi in un altro grande contenitore e coperti di stracci per evitare che la cenere venisse a diretto contatto con il bucato. Quindi, si versava il composto fatto bollire in precedenza e si lasciava raffreddare. Subito dopo, le lavandaie (lavanderi), scendevano al fiume per sciacquare la biancheria da poco lavata. Altre volte le donne si recavano al fiume anche per un lavaggio completo, da sole, oppure a due a due, utilizzando il “lavander” che era un’asse stretta, lunga circa 2.5 metri, con quattro gambe, usata dove il livello dell’acqua lo consentiva e sulla quale le lavandaie sbattevano e strizzavano le lenzuola. Poi il bucato veniva steso al vento, colorando le zone vicine al fiume. Il lavatoio, quindi, diventava un vero e proprio centro di socializzazione. Possiamo immaginare che le donne si scambiassero consigli, condividessero gioie e dolori o confessassero i più intimi segreti della loro vita affettiva ed amorosa.

Testimonianza di Iole Draghi classe 1936, figlia di Giovanni Draghi “Draghin”, l’ultimo pescatore professionista. Ottobre 2021.

Iole ricorda quando, ancora piccola, dormiva in stanza con i nonni e i “cavaler”, i bachi da seta, posti su apposite impalcature costruite per l’allevamento domestico. Era un’attività molto diffusa nelle abitazioni rivaltesi. Era uno dei tanti modi per arrotondare le entrate famigliari. Ricorda, in particolare, il rumore fastidioso, i “ciucàva”, di quando le larve mangiavano le foglie di gelso. Ci racconta della sua prima e breve esperienza in filanda come “tachera” per poi passare nella camera della seta, dove finivano i “raccomandati”, spesso parenti della famiglia Mozzanega, proprietari dello stabilimento. Iole ci racconta delle giornate passate insieme al padre Giovanni “Draghin” e al nonno Alceste, pescatori da sempre e di quanto fosse bello seguirli, quando possibile, nella loro attività. Si emoziona quando ci confessa che il suo sogno era quello di diventare magliaia. Ci narra della felicità che provò quando il padre le regalò la bicicletta per raggiungere località Grazie e da lì prendere il tram per raggiungere Mantova. Fu in una delle “botteghe” della città, che riuscì ad imparare il mestiere e a realizzare il suo sogno. Ma è solo dal racconto di quando scendeva al Mincio a far “bügada” con la madre Alba, che capiamo quanto poco bastasse per far contenti i ragazzini di quei tempi: “………….facevamo il bucato due volte all’anno, in primavera lavavamo le lenzuola dell’inverno. Si mettevano i panni a mollo e si facevano bollire a casa in grandi mastelle di metallo. Poi si scendeva al Mincio per sciacquarli scegliendo il posto dove l’acqua era più bella e la corrente più forte. Noi abitavamo a pochi passi dalla “buchèra” e non facevamo fatica a trasportare le lenzuola. Altri più lontani, invece, arrivavano fin lì con le loro carriole. Il bucato, una volta sciacquato per bene, veniva steso alla Cavana, dove ognuno aveva il suo filo sospeso. Mia madre Alba approfittava dell’occasione per mettere in acqua la “muscaröla”, una specie di vaso in vetro con il collo ad imbuto rivolto verso l’interno. Essa, riempita di farina gialla, attirava in pochissimo tempo tantissimi pesciolini con i quali facevamo delle frittate buonissime”. Iole prima di salutarci ci confessa “…..com’era bella la vita allora!. Al Mincio vivevano tante famiglie, pescatori, “canaröi”, e “carșèr”. Eravamo poveri ma si viveva bene, eravamo tutti amici”.

Testimonianza di Rina Marsili, figlia e nipote di pescatori professionisti, nata a Rivalta sul mincio il 19 ottobre 1936. Marzo 2022. 

Rina fa parte di una storica famiglia di pescatori. I Marsili sono una delle poche famiglie tutt’ora abitanti a Rivalta che compaiono già in alcuni documenti del 1746. Rina ha sempre abitato vicino al fiume e ancora oggi vive in una delle abitazioni del borgo dei pescatori. Ha condiviso con noi alcuni dei suoi ricordi della vita quotidiana di allora quando, ancora bambina, doveva darsi da fare per aiutare i genitori a sostenere l’economia familiare.

“……Ricordo che all’età di 9/10 anni andavo nei campi con mia madre Fulvia insieme a Letizia Draghi, sorella di Giovanni, e altre donne a raccogliere le spighe che rimanevano per terra dopo la mietitura “spigulà”. Partivamo la mattina verso le 4 e tornavamo la sera dopo una breve pausa a mezzogiorno e ricordo che per raccogliere più spighe andavo vicino ai mazzi già fatti dai contadini e ne prendevo un po’ per poter riempire più velocemente il mio sacco. Mia madre si spaventava e mi sgridava per la paura che mi vedessero ma in realtà i contadini, forse provando un po’ di compassione per la mia giovane età, spesso mi anticipavano dandomi uno o due mazzi da portar via. Riuscivamo a raccogliere anche 150 kg di spighe per volta e dopo averle portate da Coltri per farle battere, portavamo tutto al mugnaio “al mulinèr” per ricavarci la farina che andavamo a prendere all’occorrenza. Terminato il lavoro nei campi, molto spesso mia madre mi mandava con mia sorella a lavare i panni al fiume. Ci attrezzavamo con stivali e grembiuli di gomma, per lavare usavamo la panca da lavandaie su due cavalletti “la banca” e una specie di inginocchiatoio “bansöla” che serviva per non bagnarsi le ginocchia. Per non sentire male ci mettevamo sopra, come imbottitura, degli stracci oppure lo scarto della lavorazione della carice “al patös”. Molto più complicato era, invece, Il lavaggio delle lenzuola che si faceva un paio di volte all’anno e richiedeva anche una settimana o più per lavare 40/50 lenzuola che durante l’anno, quando erano sporche, piegavamo e mettevamo sotto al letto. Prima di tutto mio padre e mio zio immergevano nell’acqua, utilizzando dei grossi sassi, il grande mastello di legno “al sòi” per renderlo impermeabile.

Una volta pronto, ci mettevamo dentro le lenzuola e le coprivamo con uno straccio, quindi mia madre versava l’acqua con la cenere che aveva fatto bollire in precedenza nel paiolo. Rimanevano a mollo per un giorno e una notte e poi ripetevamo la stessa operazione il giorno successivo. Il mastello era talmente grande che per tirare fuori le lenzuola che si trovavano sul fondo dovevamo usare una seggiola. Il bucato veniva, successivamente, sciacquato nel Mincio e steso dappertutto, anche fino alla Chiesa, usando il filo che altre persone ci prestavano. Ricordo che le donne che non abitavano vicino al fiume come me, arrivavano molto presto con il loro carretto stracolmo di biancheria e indumenti e i loro familiari li raggiungevano poco dopo portando caffè e i biscotti perché facessero colazione. Mia nonna e mia sorella, invece, me le ricordo indaffarate a fabbricare i bartavelli “i tanburei”, anche 6 al giorno, utilizzati da mio padre e mio zio per pescare. Era una vita dura, lavoro e poco altro. Ricordo che a pranzo e a cena si mangiava tanta polenta col pesce e a volte, solo la sera e per gli uomini, un uovo intero. A colazione c’era sempre polenta avanzata dal giorno prima, tagliata a fette, fritta in poco olio e poi spolverata con un po’ di zucchero ed era buonissima.

Un bel ricordo? Quando il primo giorno dell’anno andavamo a ballare al teatro “Italia” gestito dalla Pina Tosi che si trovava nell’attuale via Gramsci.”

La Cavana

Il termine deriva da capanna ed è sostanzialmente la darsena in riva al Mincio utilizzata per il ricovero delle barche. Era chiamata così da quando il nonno di Franco Benasi, esponente di una delle storiche famiglie che coltivavano la Valle, l’aveva fatta coprire con un tetto sorretto da grandi pilastri. Se osservate con attenzione, sul pilastro più vicino al fiume è stata apposta una targa che riporta le date in cui il Mincio è straripato. La prima piena indicata è quella avvenuta nel 1911, segue quella del 1926, quindi quella del 1951, la più devastante. Quando la pesca era ancora un’attività florida, nelle vicinanze della Cavana venivano sistemati i “bürc”, grandi casse formate da listelli di legno disposte a griglia che, immerse nell’acqua, servivano a tenere vivo il pesce appena pescato in attesa di essere venduto.

Testimonianza di Giuseppe Pezzini “Gago”. Commerciante di pesce in pensione. Settembre 2021.

A proposito dei “bürc”, Giuseppe Pezzini ci racconta che «…….nei grossi contenitori in legno venivano tenuti in “viva” i pesci invenduti oppure non immediatamente richiesti. Ogni cassa veniva destinata ad una varietà specifica, per esempio guai a mettere insieme le anguille e i lucci. I pesci più pregiati, dal punto di vista commerciale, erano i lucci e i branzini. Di seguito tutti gli altri: pesci sole, pesci gatto, anguille e gobbi. Nonostante i “bürc” fossero tenuti ben chiusi da grossi lucchetti, non era infrequente venissero fatti “saltare” per rubare il prezioso contenuto, con grande sconforto di noi professionisti che del mestiere di pescatore «tiravamo a campare».

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ANNI 80 – GIOVANNI DRAGHI “DRAGHIN”
AL RITORNO DA UNA BATTUTA DI PESCA

Anni ’70 – GIOVANNI STOCCHI, CALAFATO “GALAFAS” RIVALTESE